People. Dalla classificazione alla contaminazione
Misurazioni antropometriche, rappresentazioni “segnaletiche” fondate sulla fisiognomica, assimilazione dei tratti somatici a caratteristiche razziali portatrici di un giudizio di valore: nelle figurine tra ‘800 e ‘900 si visualizzano le trasformazioni di una cultura scientifica che stava includendo la razza nella cornice dell’evoluzionismo e gli usi di un pensiero sociale che assumeva connotati spesso apertamente razzisti. Quasi 800 se ne possono ammirare al Museo della figurina, dove la mostra People. Il catalogo degli umani fra ‘800 e ‘900 ripercorre come in una vera e propria enciclopedia il catalogo delle popolazioni allora conosciute, secondo piste di lettura che sottolineano la geografia delle razze, la specificità dei costumi e i paradigmi della classificazione (Modena, Museo della Figurina e Museo Civico Etnologico).
In letteratura gli oggetti di classificazione prendono vita, spezzano le astrazioni mentali e divengono personaggi, al punto che per ritrovare l’eco di individui veramente esistiti nella realtà sociale è più utile andarla a cercare in prodotti dell’immaginazione d’autore, come Huckleberry Finn di Mark Twain, il tipico schiavo nero delle piantagioni americane che, nella sua discesa lungo il Mississipi, ci commuove, ci fa ridere e ci fa pensare alle esperienze dei suoi tanti simili veramente esistiti nell’America dell’Ottocento. Ne legge brani con accompagnamento musicale l’attrice Daniela Fini (a Sassuolo sabato 19 alle ore 17, per ragazzi).
Nessun sistema di classificazione regge però di fronte alla complessità di una realtà umana e sociale che porta le culture in contatto. Anche quando ciò è avvenuto nelle forme dello schiavismo e del dominio coloniale, nessuna delle parti in gioco è rimasta la medesima. La musica è un terreno fertile di contaminazione, dove i generi si mischiano senza rinunciare all’ossequio per la tradizione, ma esplorando ritmi e sonorità etniche e “altre”. La raffinata vocalist Sarah-Jane Morris ha fatto dell’accostamento di generi (jazz, rock, blues, soul, afro) il suo timbro distintivo (a Sassuolo sabato 19 alle 22,30).
La contaminazione non è solo un fatto da melting pot statunitense, non si ascolta solo in CD e non è nemmeno un argomento unicamente da cultural studies. È un’esperienza che facciamo tutti, qui e ora, ciascuno nel suo luogo, perché nessun luogo può ormai essere più semplicemente locale. Gli sbarchi dei clandestini lungo le coste italiane o l’incidenza delle etnie straniere in una comunità locale come quella modenese indicano che, domani, la cittadinanza dovrà essere più inclusiva e l’appartenenza non svanirà, ma forse avrà un volto (e tratti somatici) diversi, più mischiati. Ne esplorano le potenzialità espressive due artisti, Antonio Riello e Silvia Levinson, nelle loro esposizioni e installazioni in due gallerie private modenesi: Community Face e Piccolo Ulisse (non stop nei tre giorni del festival).
Le crepe interne della comunità: l’estraneo
L’analisi minuziosa dei meccanismi di funzionamento di realtà chiuse, delle logiche che governano la vita di comunità isolate o separate rispetto ad un contesto sociale più vasto – questo, come ha scritto il filosofo Umberto Curi, è il fulcro attorno al quale ruota tutto il cinema di Peter Weir. Si tratti di un collegio femminile, come accade in Picnic ad Hanging Rock, del mondo magico degli aborigeni australiani (L’ultima onda), della comunità degli hamish (Witness), della “società dei poeti estinti”, come suona il titolo originale del film tradotto come L’attimo fuggente, oppure del microcosmo della nave da combattimento Surprise, Weir indaga, con la cura del dettaglio propri di un entomologo, ciò che avviene all’interno di comunità chiuse. E quel che avviene è che, comunque, la loro compattezza è minata non solo dal nemico esterno, ma dall’interno, dalla presenza perturbante dell’altro che abita in noi. Il festivalfilosofia ne presenta una retrospettiva quasi completa (9 delle 13 pellicole girate, fra cui alcune inedite in Italia), curata da Alberto Morsiani e distribuita nelle tre serate (Modena, Cinema Truffaut).
Gli fa da contraltare, a Carpi, la trilogia dei morti viventi di Gorge Romero, (all’Auditorium Loria, sabato 20, naturalmente di notte). Nella pellicola capostipite, del 1968, per motivi sconosciuti, i morti tornano in vita sotto forma di zombie sanguinari e assediano, tra le altre, una piccola comunità rinchiusa in una casa di campagna i cui proprietari sono stati uccisi. Con i successivi Zombi (1978) e Day of the dead (1985) George Romero marchiò a fuoco i cinefili di tutto il mondo. L’estetica horror divenne veicolo per una critica al tessuto sociale in decomposizione, dove microcomunità di “sopravvissuti” si trovano a combattere contro forze più grandi di loro.